Article paru sur le site ISPI le 13/03/2023 par Eleonora Ardemagni (ISPI, Associate Research Fellow)
Con l’accordo fra Arabia Saudita e Iran, Riyadh scommette sulla diplomazia della doppia emergenza: quella delle catastrofi di oggi, belliche o naturali (Ucraina, Siria, Yemen), nonché quella delle potenziali crisi di domani (Iran).
È in questo contesto che va inquadrata la ripresa delle relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Iran (interrotte dal 2016), annunciata dalle parti il 10 marzo, in un comunicato siglato anche dalla Cina che ha mediato, a Pechino, ′l’ultimo miglio dell’intesa`.
Una mossa che enfatizza le nuove relazioni internazionali del Golfo. E racconta l’odierna politica estera del regno saudita, con il filo rosso della diplomazia, soprattutto umanitaria, che è passato per Ucraina, Yemen e Siria –aree in cui gli iraniani giocano un ruolo diretto o indiretto- mentre Riyadh riannodava il dialogo formale con l’Iran.
Riyadh ha scelto di riallacciare ufficialmente le relazioni diplomatiche con Teheran: è il compimento di un processo di de-escalation regionale in corso dal 2021 che, specie in una prima fase, è stato avviato dagli Emirati Arabi Uniti sin dal 2019. I principi di sovranità e non-interferenza sono i due cardini dell’accordo saudita-iraniano che dovrebbe portare, entro due mesi, alla riapertura delle ambasciate nonché allo scambio del personale diplomatico.
Per l’Arabia Saudita, anche le relazioni con l’Iran rientrano nella diplomazia dell’emergenza, in questo caso preventiva: sono infatti molte le variabili ′infiammabili` che potrebbero, combinandosi, dare vita domani a un nuovo teatro di guerra in Medio Oriente. Teheran è a un passo dalla soglia nucleare come affermato dall’AIEA (Organizzazione Internazionale per l’Energia Atomica); Israele –con un esecutivo mai così a destra- torna a ipotizzare l’attacco preventivo contro i siti nucleari iraniani; Iran e Russia, regimi sotto sanzione, stringono sempre di più la cooperazione militare.
In un contesto di tale incertezza, l’Arabia Saudita sceglie così di muoversi, nei confronti dell’incognita Iran, mediante un doppio binario. Da un lato, il regno rafforza le capacità militari, in autonomia o mediante la difesa integrata con gli Stati Uniti. Dall’altro, Riyadh rilancia il dialogo diplomatico con il vicinato.
L’obiettivo dell’Arabia Saudita è dotarsi di tutti gli strumenti possibili, militari e politici, per poter fronteggiare un eventuale scenario di crisi mediorientale e nel Golfo. Da allontanare il più possibile, anche perché il percorso di diversificazione economica ′oltre il petrolio` richiede stabilità regionale.
Per l’Iran, l’intesa è un modo per provare a ri-legittimarsi sul piano della politica estera, dopo che le rivolte popolari –e la violenza della repressione interna- hanno reso più vulnerabili gli assetti di potere della Repubblica Islamica.
Il ritorno alla diplomazia formale tra Arabia Saudita e Iran può incentivare il rinnovo della tregua nazionale in Yemen, forse addirittura il cessate il fuoco: quello yemenita è l’ultimo conflitto post-2011 ancora formalmente aperto nella regione. Pensare, tuttavia, che la ripresa delle relazioni bilaterali fra Arabia Saudita e Iran porti, di per sé, alla pacificazione dello Yemen significa ignorare le origini interne del conflitto, nonché la profonda frammentazione del paese. Basti vedere le proteste del secessionista Consiglio di Transizione del Sud escluso dai colloqui fra sauditi e houthi come, tra l’altro, lo stesso esecutivo yemenita riconosciuto (nonché il Consiglio Presidenziale voluto dai sauditi).
Per l’Arabia Saudita, la politica estera dell’emergenza si compone anche di un’altra parte. È quella delle emergenze generate dagli avvenimenti internazionali odierni: la guerra in Ucraina, il terremoto in Siria, il collasso economico dello Yemen.
Il regno saudita sta infatti moltiplicando la diplomazia umanitaria tramite aiuti e donazioni finanziare. L’obiettivo di fondo è politico: alleviare le difficoltà delle popolazioni -senza dimenticare che proprio in Yemen è in corso dal 2015 un intervento militare a guida saudita- incrementando altresì il soft power di Riyadh nelle crisi più calde (Ucraina-Russia; Yemen) e in contesti problematici per la politica del regno (Siria). Da questi teatri di crisi, in cui l’Iran è direttamente o indirettamente coinvolto, sono arrivati i primi sottili segnali del disgelo fra sauditi e iraniani.
Sono 400 i milioni di dollari promessi dall’Arabia Saudita all’Ucraina nel corso della storica visita del ministro degli esteri Faisal bin Farhan Al Saud a Kiev (26 febbraio): 100 milioni di aiuti più 300 milioni per l’acquisto di derivati del petrolio tramite il Saudi Fund for Development.
Il ministro degli esteri saudita si è poi recato in Russia (9 marzo), dichiarando che Riyadh è pronta a facilitare il dialogo tra Russia e Ucraina, mentre la cooperazione militare fra russi e iraniani si fa più stretta.
Il 22 febbraio, l’Arabia Saudita ha depositato 1 miliardo di dollari presso la Banca centrale di Aden, che non riesce più a pagare gli stipendi pubblici: intanto, proseguono i colloqui diplomatici fra i sauditi e gli houthi yemeniti sostenuti dall’Iran. Il 14 febbraio, dopo il devastante terremoto, l’Arabia Saudita ha poi inviato il primo di una serie di aerei umanitari in Siria, destinazione Aleppo. Non accadeva dal 2012 che i sauditi entrassero nei territori tornati sotto il controllo di Bashar Al-Assad, primo alleato regionale dell’Iran.
Per la Cina, prima importatrice di petrolio dal Golfo, il comunicato a tre che ristabilisce relazioni diplomatiche fra Arabia Saudita e Iran è la dimostrazione dell’accresciuto ruolo di Pechino nella regione, nonché un indubbio successo d’immagine. D’altronde gli Stati Uniti, troppo sbilanciati fra le parti, non avrebbero potuto mediare fra Riyadh e Teheran.
Sarebbe tuttavia fuorviante considerare il riavvicinamento saudita-iraniano come una pax cinese. Innanzitutto, perché la Cina non diventa il garante esterno della sicurezza del Golfo, anche se è il primo sponsor esterno dell’accordo. Poi, perché la ripresa delle relazioni diplomatiche tra le capitali rivali è l’esito di un lento processo di disgelo endogeno alla regione mediorientale, facilitato prima dall’Iraq (2021) e poi dall’Oman (2022), come menzionato nel comunicato ed evidenziato poi dagli Stati Uniti.
Tuttavia, l’annuncio e le firme arrivano da Pechino. Un colpo diplomatico che rappresenta un indiscutibile smacco per Washington, che pure continua a prodigarsi –sul fronte sunnita e con Israele- per la creazione di geometrie politiche di stabilità in Medio Oriente, dagli Accordi di Abramo al Forum del Negev.
La ripresa delle relazioni formali tra Arabia Saudita e Iran è un risultato ′a somma positiva` per l’intero Medio Oriente. E lo è anche per tutti gli attori globali, Unione Europea inclusa, visto il ruolo energetico sempre più centrale che il Golfo ha acquisito dopo l’invasione russa dell’Ucraina.
Riyadh e Teheran continueranno a essere rivali e a competere nella regione, ma ora scelgono di depotenziare lo scontro frontale verso il quale sembravano proiettate. Mediante la diplomazia della doppia emergenza, l’Arabia Saudita si ricava un peso negoziale più forte tra Russia e Ucraina, mentre apre una fase ancora da esplorare nei rapporti, fin qui in costante miglioramento, con Israele.
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